Tutto quello che
avreste voluto sapere
sulla chemio
(ma che non viene detto)

Negli ultimi 30 anni tutta la ricerca contro il cancro si è sviluppata nell’ambito della Medicina convenzionale senza lasciare alcuno spazio (risorsa o finanziamento) ad altra possibilità, magari anche non convenzionale. Eppure gli scarsi risultati ottenuti finora, a livello macroscopico sono sotto gli occhi di tutti, mentre a livello microscopico sono comunque camuffati o ben nascosti. La più grande banca dati in questo settore a livello internazionale è fornita dal National Cancer Institute (NCI) americano che, come tutta l’oncologia convenzionale, adotta quali parametri di valutazione dell’efficacia terapeutica:

1.   la riduzione della massa tumorale

2.   la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi. [1]

Non si curano del fatto che la riduzione della massa tumorale non corrisponde affatto alla sopravvivenza o al benessere del paziente oncologico, come pure trascurano l’evidenza che 5 anni in più di vita massacrata dai trattamenti chemioterapici sono ben lontani da un risultato soddisfacente. Disse una volta un antico saggio: “occorre aggiungere vita agli anni, e non anni alla vita”.

Inoltre, una faccenda davvero interessante è come vengono fatte le statistiche dei risultati. Se viene ospedalizzato un paziente, ad esempio, con un tumore al seno e, fatta la terapia, viene poi dimesso che “sta bene”, non la chiamano dimissione, ma guarigione. Se dopo tre mesi ritorna con un tumore al fegato, non verrà ricollegato alla sua situazione precedente: in pratica 2 pazienti su 2 sono usciti rimessi a nuovo. Ma c’è di più: se viene dimesso e poi ritorna per controlli e viene di nuovo dimesso, ogni passaggio è un dato positivo. Cioè, se si viene dimessi 9 volte e si muore una volta sola, alla fine il risultato sarà del 90% di guarigioni e del 10% di mortalità.

Un altro esempio è quello del rapporto tra tumore al testicolo e tumore al polmone: del primo si salvano più del 90%, del secondo si arriva a fatica al 10%. Una media stimata sarebbe del 50%, ma non si dice che quelli del testicolo sono solo 2.000, mentre quelli colpiti dal tumore al polmone sono 40.000. [1]

La materia statistica è davvero fantastica.

Un’altra cosa da sapere (ma la gente lo sa?) è che la chemioterapia è … cancerogena. Tanto per fare un esempio, il Tamoxifene, usato nella terapia contro il cancro al seno, lo fa venire all’utero. E secondo l’esperienza clinica, l’aggressività di un tumore recidivante diventa esponenziale dopo la chemioterapia. L’attenta valutazione se applicarla o meno andrebbe fatta su ogni singolo caso individualmente, anziché protocollarla a tappeto. In uno studio che Lancet pubblicò nel 1975 si evidenziava che dei pazienti con cancro inoperabile ai bronchi sopravvivevano mediamente di più quelli che non avevano subìto il trattamento chemioterapico, rispetto a quelli che vi si erano sottoposti. Lo stesso riporta un altro studio su cancro polmonare asportato chirurgicamente, che non ha mostrato alcuna differenza tra i malati successivamente trattati con chemio, rispetto a quelli non trattati affatto. In altri casi è stata documentata la regressione spontanea, che non è affatto impossibile. [1]

Non interessa a nessuno (men che meno alle aziende farmaceutiche) sapere se lo stesso paziente potrebbe vivere di più se si escludesse qualsiasi intervento terapeutico (con tutti gli effetti collaterali che porta).

Uno studio importante, condotto da oncologi e recentemente pubblicato nel journal Clinical Oncology, si è basato sulle analisi dei risultati di tutti gli studi clinici randomizzati (RTC) condotti in Australia e negli Stati Uniti (US National Cancer Institute’s Surveillance Epidemiology and End Results – SEER) per il periodo gennaio 1990 – gennaio 2004. Nella raccolta dei dati, quando i dati erano incerti, gli autori hanno deliberatamente stimato in eccesso i benefici della chemioterapia, ma nonostante ciò, lo studio ha concluso che la chemioterapia non contribuisce più del 2% alla sopravvivenza dei pazienti affetti da cancro: davvero poco. E le stime sono ottimistiche, piuttosto che pessimistiche. [2]

Malgrado la crescente evidenza che la chemioterapia non prolunghi affatto la sopravvivenza del malato (né c’è stato alcun beneficio con l’uso di nuovi protocolli), gli oncologi continuano a presentare il trattamento come un approccio razionale e promettente contro il cancro. A un paziente oncologico a cui viene chiesto di firmare il Consenso Informato[1] (ma è veramente “informato”?), viene presentato il trattamento chemioterapico come la migliore soluzione di cura, utilizzando parole in gergo medico o statistico, che poco lo illuminano sulla realtà dei fatti. Ad esempio, se ricevere un trattamento causa un abbassamento del rischio di ritorno del cancro dal 4% al 2%, questo può essere espresso come una diminuzione del rischio relativo del 50%!
E questi valori sembrano buoni: molto più buoni rispetto a dire che il trattamento offre una riduzione di rischio di solo il 2% che il cancro ritorni. Una dichiarazione del genere non convincerebbe molti pazienti a fare un trattamento così nocivo. [2]

Del resto c’è da dire anche che al paziente che soffre di un tumore con basso indice di sopravvivenza, non solo viene proposta la chemioterapia come palliativa (che lui accetterà nonostante i grossi rischi e la scarsa percentuale di successo, perché tanto non ha niente da perdere), ma gli viene pure proposto in alternativa di candidarsi nella sperimentazione di nuove molecole.

Ma sembrerebbe che il National Cancer Institute e tutta l’oncologia istituzionale siano d’accordo (nonostante questi indiscutibili successi…) che sia auspicabile trovare nuove strade e nuove ipotesi terapeutiche contro il cancro. [1]

Ovviamente in Italia è assolutamente vietato cercare queste nuove strade nell’Omeopatia o nelle Medicine non Convenzionali!

Il National Institute of Health americano, una delle maggiori autorità in campo sanitario a livello mondiale, per offrire una possibilità di riflessione ulteriore, ha istituito il National Center for Complementary and Alternative Medicine (il Centro Nazionale per le medicine complementari e alternative), che fornisce un’ampia sezione di informazioni dedicate anche all’approccio con il cancro, sottolineando l’esigenza di non ignorare queste diverse strade e di incoraggiare studi clinici in proposito. In Italia non solo non esiste niente del genere, ma anzi ci si guarda bene dal sostenere una simile opportunità (a discapito della tutela dei poveri pazienti).

Eppure, sia nell’ambito dell’Omeopatia, che della Medicina antroposofica, che dell’Agopuntura e Medicina Tradizionale Cinese, come pure dell’Omotossicologia, esistono evidenze cliniche e risultati (seppure ancora su piccoli numeri) che dovrebbero stimolare curiosità e incentivare la ricerca anti-tumorale in un contesto non convenzionale.  [1]

Molti ospedali omeopatici in Europa e nel mondo stanno affrontando egregiamente la patologia oncologica, e varrebbe la pena curiosare tra le loro casistiche e statistiche di successo per valutarne le prospettive future.

Perché rinunciare a una simile occasione?

BIBLIOGRAFIA

[1] C. Benatti – Speciale _ Chemio: quello che in genere non viene detto – Aam Terra Nuova Marzo 2006 – Rubrica Salute è – Pagg.4-9

[2] Ralph Moss, Ph.D. – http://www.cancerdecisions.com/ Newsletter #226 del 03/05/06


[1] Nel colloquio col medico, il paziente dovrebbe essere dettagliatamente informato su rischi, benefici e alternative del trattamento che va ad affrontare, e sottoscrivere la propria accettazione se, dalle informazioni ottenute, rileva che esso sia la migliore soluzione per sé.